Marlene si guadava nel cielo.
Le stelle, limpide e ghiacciate, riflettevano la sua luce. Lei sapeva che le stelle piangevano, talvolta, mentre giravano lente. Le aveva udite.
Marlene amava troppo Peter. Così si rinchiudeva nell'armadio di legno. Respirava piano il suo silenzio. E si inventava nenie e filastrocche per non pensare.
Peter, forse, non aveva cuore.
I suoi occhi erano dolci, in certi istanti. Erano occhi di daino.
Ma quando fuggiva Marlene si sentiva sola e dispersa. Si aggirava per la città con una rapidità non sua, la voce le diventava dura, lo sguardo opaco.
Vedeva i piccioni morti agli angoli delle strade. Le nuvole cadevano in fili bianchi dal cielo. E il sole era il grande ragno.
Marlene non avrebbe voluto amare così, troppo amare era morire. Si specchiava nei bicchieri di cristallo, la sua faccia si allungava. Il vetro era liscio. Marlene avrebbe voluto essere vetro. Essere libera. Essere muta, sorda, cieca. Essere pura e vuota, come i calici nella sua credenza.