Il campo da calcio era deserto alle quattro,
quel giorno. Davanti c’era un terreno coltivato a granoturco, il mais ancora
doveva crescere. Un corvo gracchiò nel cielo bianco di afa. Alessandro tardava
e io mi rosicchiavo le unghie.
Non avevo un piano ed ero agitata. Il sudore
mi aveva bagnato le ascelle e temevo si vedesse. O si sentisse.
- E ora cosa
gli dico, che cosa gli dico –
Il corvo mi guardava e io non sapevo che cosa
fare.
Erano le quattro e mezza e non era venuto.
Le lacrime mi inumidivano gli occhi, presi la
bici per tornarmene a casa, ma svoltato l’angolo lo vidi.
- Ciao –
mormorò.
Io ero troppo felice per rispondergli. Sperai
che non si notassero le lacrime.
Aveva il viso scuro, in tempesta. Sembrava
aver attraversato un uragano con la sua vecchia bici.
- Che volevi
dirmi? –
- Non posso
parlare qui. Seguimi –
E iniziai a pedalare veloce, l’aria avrebbe
asciugato la paura e le lacrime.
E dove lo porti adesso, Viola? Mi dicevo.
Lontano, più lontano possibile.
Presi la strada dei girasoli che porta fuori
dal paese, lui mi affiancò.
- Aspetta,
fermati! –
Frenai.
- Ti devo
avvisare ragazzina – il suo sguardo era scuro – se pensi di portarmi in un
posto imboscato per farmi picchiare dai tuoi amici guarda che io ho questo e lo
so usare – tirò fuori dalla tasca un coltello pieghevole.
Lo fece scattare, la lama brillò sotto al
sole. Deglutii.
- Tu non hai
ancora capito. Io ti ho salvato dai miei amici –
Ripresi a pedalare in silenzio.
Non so perché lo portai alla cascina, forse
perché ci pensavo in continuazione e avevo bisogno di vederla ancora per
distruggere quelle immagini distorte dentro di me. Forse perché sapevo che la
banda non ci sarebbe venuta. Era difficile che per due giorni si facessero le
stesse cose, era una delle regole.
Alessandro si guardò intorno.
- Che posto è
questo? –
- È una
cascina abbandonata e ci sono i fantasmi –
Alessandro si avvicinò e le sue mani mi
afferrarono le spalle.
- Perché mi
hai portato qui, adesso parli –
Per un momento pensai al suo coltello, pensai
che ero stata una pazza a portare uno sconosciuto in un posto così isolato,
pensai che, in fondo, io ero una ragazza e lui era un ragazzo.
Mi liberai dalla sua presa e confessai.
- Ieri per
penitenza dovevo venire da te e dirti una cosa brutta. Giò voleva che lo
facessi. Io però mi sono inventata questa storia dell’appuntamento perché ce
l’avevo con Giò e non volevo insultarti –
Abbassai il viso. C’era una pozzanghera vicino
ai miei piedi. Doveva aver piovuto quella notte, non me n’ero accorta. La
pozzanghera rifletteva una nuvola, come una barca dalla vela sbrindellata che
stava naufragando nel cielo.
Ritornai a guardarlo.
Alessandro aveva un’espressione diversa, più
dolce, che mai gli avevo visto.
Strappò un filo d’erba e lo strinse tra le
labbra.
- Lo sai fare?
– chiese.
Fece cantare l’erba, con un suono acuto,
remoto.
Io scossi il capo.
- Però sono
brava a arrampicarmi. Vediamo chi fa prima? – indicai l’ippocastano dietro di
noi.
E iniziò la gara.
Vinsi io, Ale aveva braccia forti, ma non la
mia agilità e la mia pratica.
- Si vede che
vieni dalla città! – esclamai in cima ad un ramo.
- Accidenti se
sei forte – ansimò lui raggiungendomi.
Dall’alto si vedeva la cascina, interamente. Il
tetto era ancora in buone condizioni, sul retro c’erano dei vecchi aratri
arrugginiti, un cingolo e altri rottami.
- Come hai
detto che ti chiami? – chiese lui e mi accorsi che era molto vicino, percepivo
il suo respiro, ma non si poteva fare altrimenti, il ramo più in là si
assottigliava.
- Viola –
dissi.
- Viola, ora
sarà meglio scendere, che ne dici? –
I suoi occhi riflettevano le foglie, come
carezze su di noi.
L’ombra
- Vuoi
entrare? – chiese, indicandomi la cascina.
- È chiusa con
un lucchetto, bisogna scassinare la serratura… E poi no, non voglio entrare –
- Cosa hai
visto là dentro? Tu hai paura –
Alessandro sapeva cos’era la paura, sapeva
riconoscerla.
- Non posso
dirtelo –
- Sei ben
strana –
Si sedette accavallando le gambe, tirò fuori
un pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans, un accendino e iniziò a
fumare.
- Vuoi? –
Scossi il capo. Avrei fatto una brutta figura
perché non sapevo fumare. Lui invece teneva la sigaretta tra le labbra e
aspirava tranquillamente, senza impegnarsi o agitarsi come facevamo noi della
banda.
Mi accorsi che era bellissimo e che era da un
po’ che lo pensavo. Mi accorsi che non avevo mai provato un’emozione simile,
mai. Avrei voluto gettargli via la sigaretta e baciarlo.
Ma poi guardai la cascina e la vidi.
Era una sagoma scura vicino alla porta.
La mia pelle fu percorsa da brividi, come
vermi su di me.
- Andiamo via
– mormorai.
- Che c’è? –
- Scusa, io
devo andare via –
Scappai verso la mia bici.
Mi voltai ancora una volta. L’ombra veniva
verso di noi, ormai era poco lontana da Ale.
- Vieni via,
cazzo! –
Ale si guardò intorno, non vide nulla, ma mi
seguì.
L’ombra si era fermata al cancello e ci
osservava, ma non aveva occhi.
Io piangevo perché era come vedere la morte o
il buio in fondo a un pozzo.
Pedalai velocemente.
Ale stava dietro.
Piangevo come una bambina e sapevo che avevo
rovinato tutto.
- Ehi,
fermati! –
Frenai. Eravamo circondati dai girasoli, alti
più di noi.
Ale fece cadere la bici a terra e mi
abbracciò.
- Va tutto
bene – mi disse all’orecchio.
Io piansi tutte le lacrime che avevo in corpo
ed erano tantissime.
La mia testa appoggiata al suo corpo aveva
trovato un angolo di quiete inaspettata e indimenticabile. Lui nascose il suo
viso tra i miei capelli, forse anche lui stava piangendo. Non per l’ombra, ma
per qualcos’altro che era costretto a vivere tutti i giorni, per l’assenza di
lei, un’assenza assordante in tutto il suo silenzio.
Non volevo muovere un muscolo, non volevo
spostarmi da quella posizione meravigliosa e, malgrado l’ombra che avevo visto,
qualcosa mi allagò lo stomaco e risalì fino ai polmoni. Un’emozione densa, un
incendio di pioggia dentro di me.
- Va meglio? –
chiese lui, staccandosi.
Annuii, asciugandomi le lacrime con la mano e
riprendendo la bicicletta.
Entrammo in paese. Le case erano ignare
dell’inferno, poco lontano da lì.
Lui si fermò, doveva girare a destra per
andare a casa.
- Ciao –
disse.
Anche lui era scosso e non sapevamo come
salutarci. Avrei voluto baciarlo, ma non potevo e lui magari avrebbe riso di me
o si sarebbe scansato e tutto sarebbe finito.
- Ciao –
mormorai.
E poi scappai via, nelle vie incendiate.