giovedì 22 giugno 2017

L'aria avrebbe asciugato la paura e le lacrime



  Il campo da calcio era deserto alle quattro, quel giorno. Davanti c’era un terreno coltivato a granoturco, il mais ancora doveva crescere. Un corvo gracchiò nel cielo bianco di afa. Alessandro tardava e io mi rosicchiavo le unghie.
  Non avevo un piano ed ero agitata. Il sudore mi aveva bagnato le ascelle e temevo si vedesse. O si sentisse.
- E ora cosa gli dico, che cosa gli dico –
  Il corvo mi guardava e io non sapevo che cosa fare.
  Erano le quattro e mezza e non era venuto.
  Le lacrime mi inumidivano gli occhi, presi la bici per tornarmene a casa, ma svoltato l’angolo lo vidi.
- Ciao – mormorò.
  Io ero troppo felice per rispondergli. Sperai che non si notassero le lacrime.
  Aveva il viso scuro, in tempesta. Sembrava aver attraversato un uragano con la sua vecchia bici.
- Che volevi dirmi? –
- Non posso parlare qui. Seguimi –
  E iniziai a pedalare veloce, l’aria avrebbe asciugato la paura e le lacrime.

  E dove lo porti adesso, Viola? Mi dicevo.
  Lontano, più lontano possibile.
  Presi la strada dei girasoli che porta fuori dal paese, lui mi affiancò.
- Aspetta, fermati! –
  Frenai.
- Ti devo avvisare ragazzina – il suo sguardo era scuro – se pensi di portarmi in un posto imboscato per farmi picchiare dai tuoi amici guarda che io ho questo e lo so usare – tirò fuori dalla tasca un coltello pieghevole.
  Lo fece scattare, la lama brillò sotto al sole. Deglutii.
- Tu non hai ancora capito. Io ti ho salvato dai miei amici –
  Ripresi a pedalare in silenzio.

  Non so perché lo portai alla cascina, forse perché ci pensavo in continuazione e avevo bisogno di vederla ancora per distruggere quelle immagini distorte dentro di me. Forse perché sapevo che la banda non ci sarebbe venuta. Era difficile che per due giorni si facessero le stesse cose, era una delle regole.

  Alessandro si guardò intorno.
- Che posto è questo? –
- È una cascina abbandonata e ci sono i fantasmi –
  Alessandro si avvicinò e le sue mani mi afferrarono le spalle.
- Perché mi hai portato qui, adesso parli –
  Per un momento pensai al suo coltello, pensai che ero stata una pazza a portare uno sconosciuto in un posto così isolato, pensai che, in fondo, io ero una ragazza e lui era un ragazzo.
  Mi liberai dalla sua presa e confessai.
- Ieri per penitenza dovevo venire da te e dirti una cosa brutta. Giò voleva che lo facessi. Io però mi sono inventata questa storia dell’appuntamento perché ce l’avevo con Giò e non volevo insultarti –
 
 Abbassai il viso. C’era una pozzanghera vicino ai miei piedi. Doveva aver piovuto quella notte, non me n’ero accorta. La pozzanghera rifletteva una nuvola, come una barca dalla vela sbrindellata che stava naufragando nel cielo.
  Ritornai a guardarlo.
  Alessandro aveva un’espressione diversa, più dolce, che mai gli avevo visto.
  Strappò un filo d’erba e lo strinse tra le labbra.
- Lo sai fare? – chiese.
  Fece cantare l’erba, con un suono acuto, remoto.
  Io scossi il capo.
- Però sono brava a arrampicarmi. Vediamo chi fa prima? – indicai l’ippocastano dietro di noi.
  E iniziò la gara.
  Vinsi io, Ale aveva braccia forti, ma non la mia agilità e la mia pratica.
- Si vede che vieni dalla città! – esclamai in cima ad un ramo.
- Accidenti se sei forte – ansimò lui raggiungendomi.

  Dall’alto si vedeva la cascina, interamente. Il tetto era ancora in buone condizioni, sul retro c’erano dei vecchi aratri arrugginiti, un cingolo e altri rottami.
- Come hai detto che ti chiami? – chiese lui e mi accorsi che era molto vicino, percepivo il suo respiro, ma non si poteva fare altrimenti, il ramo più in là si assottigliava.
- Viola – dissi.
- Viola, ora sarà meglio scendere, che ne dici? –
  I suoi occhi riflettevano le foglie, come carezze su di noi.



L’ombra

- Vuoi entrare? – chiese, indicandomi la cascina.
- È chiusa con un lucchetto, bisogna scassinare la serratura… E poi no, non voglio entrare –
- Cosa hai visto là dentro? Tu hai paura –
  Alessandro sapeva cos’era la paura, sapeva riconoscerla.
- Non posso dirtelo –
- Sei ben strana –
  Si sedette accavallando le gambe, tirò fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans, un accendino e iniziò a fumare.
- Vuoi? –
  Scossi il capo. Avrei fatto una brutta figura perché non sapevo fumare. Lui invece teneva la sigaretta tra le labbra e aspirava tranquillamente, senza impegnarsi o agitarsi come facevamo noi della banda.
  Mi accorsi che era bellissimo e che era da un po’ che lo pensavo. Mi accorsi che non avevo mai provato un’emozione simile, mai. Avrei voluto gettargli via la sigaretta e baciarlo.
  Ma poi guardai la cascina e la vidi.
  Era una sagoma scura vicino alla porta.
  La mia pelle fu percorsa da brividi, come vermi su di me.
- Andiamo via – mormorai.
- Che c’è? –
- Scusa, io devo andare via –
  Scappai verso la mia bici.
  Mi voltai ancora una volta. L’ombra veniva verso di noi, ormai era poco lontana da Ale.
- Vieni via, cazzo! –
  Ale si guardò intorno, non vide nulla, ma mi seguì.
  L’ombra si era fermata al cancello e ci osservava, ma non aveva occhi.
  Io piangevo perché era come vedere la morte o il buio in fondo a un pozzo.

  Pedalai velocemente.
  Ale stava dietro.
  Piangevo come una bambina e sapevo che avevo rovinato tutto.
- Ehi, fermati! –
  Frenai. Eravamo circondati dai girasoli, alti più di noi.
  Ale fece cadere la bici a terra e mi abbracciò.
- Va tutto bene – mi disse all’orecchio.
  Io piansi tutte le lacrime che avevo in corpo ed erano tantissime.
  La mia testa appoggiata al suo corpo aveva trovato un angolo di quiete inaspettata e indimenticabile. Lui nascose il suo viso tra i miei capelli, forse anche lui stava piangendo. Non per l’ombra, ma per qualcos’altro che era costretto a vivere tutti i giorni, per l’assenza di lei, un’assenza assordante in tutto il suo silenzio.
  Non volevo muovere un muscolo, non volevo spostarmi da quella posizione meravigliosa e, malgrado l’ombra che avevo visto, qualcosa mi allagò lo stomaco e risalì fino ai polmoni. Un’emozione densa, un incendio di pioggia dentro di me.
- Va meglio? – chiese lui, staccandosi.
  Annuii, asciugandomi le lacrime con la mano e riprendendo la bicicletta.

  Entrammo in paese. Le case erano ignare dell’inferno, poco lontano da lì.
  Lui si fermò, doveva girare a destra per andare a casa.
- Ciao – disse.
  Anche lui era scosso e non sapevamo come salutarci. Avrei voluto baciarlo, ma non potevo e lui magari avrebbe riso di me o si sarebbe scansato e tutto sarebbe finito.
- Ciao – mormorai.
  E poi scappai via, nelle vie incendiate.






mercoledì 14 giugno 2017

Villa Ombra

Villa Ombra è la storia di un'estate. Siamo nel 1991, Viola ha 16 anni e insieme ai suoi amici entra in una cascina abbandonata. Lì inizia un'avventura con se stessa, i sensi avvertono tutti i fruscii, le ombre, i sussurri. Viola cresce in un'estate di stelle cadenti, di pagine di un diario scritto nel 1978, da un ragazzo morto in circostanze misteriose, di ricordi non suoi, aperta all'universo, in bilico tra due realtà. Il mondo dei vivi e il mondo degli Altri.

La scoperta dell'amore e della morte, in un gioco pericoloso. Si può vivere a metà?




Mille gocce d’acqua, per mille istanti perduti.
Percorri la scala a ritroso,
ritorna a quei giorni d’estate,
in cui i grilli cantarono questa canzone.
Ora, non ho paura di ascoltarla.


 Avrò avuto 4 anni, era pomeriggio e pioveva. Giocavo con le biglie, le facevo cadere dai gradini della scala a chiocciola di casa. Piccole sfere di vetro, sul marmo bianco venato di grigio. Chissà se si rompono, mi dicevo.
   Le biglie rotolano fino al piano terra. Ne raccolgo una. Ha l’anima azzurra, una piccola foglia di mare. E poi li vedo.  Un uomo e una donna, in cima alla scala. Mi guardano con affetto, sono giovani, eppure hanno negli occhi l’incanto della notte. Sanno il mio nome. Sanno tutto di me, eppure non possono toccarmi, non possono parlarmi. Sono lì, ma potrebbero anche essere altrove. Lascio cadere la biglia, ma non fa rumore. C’è solo il suono della pioggia, un bisbiglio antico, frammenti di filastrocche sconosciute, poesie interrotte, lacrime.
 
  Qualche giorno dopo, sfogliando un vecchio album di famiglia, li rivedo; sono proprio loro: la mia bisnonna Arianna, morta a trent’anni di parto e suo marito Umberto. Sfioro le foto antiche e piango. Ma i morti non stanno in paradiso? Che ci fanno i morti a casa mia?

  Non volli più andare sulla scala da sola, costringevo almeno uno dei miei fratelli ad accompagnarmi. Fino a che quel ricordo si offuscò, diventò un sogno sfumato, avvolto nella nebbia. Crescevo veloce e pensavo fosse stato un incubo: i morti sono chiusi nelle bare, sotto terra. Portiamo i fiori a novembre, piangiamo un po’, talvolta, ricordandoli. E le loro anime vivono in un giardino di rose, in mezzo alle nuvole. Il mio ordine mentale era stato ripristinato, resettando quell’interferenza dolorosa.

  Allora non sapevo che quella storia fosse appena incominciata.






 Foto Anita Libera Corsi




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